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giovedì 31 dicembre 2009

2010 anno della rinascita?

Resurrezione

Il latrato rompe tre volte
l’acqua scura del lago:

le ombre hanno bianche vesti;

distenebra la notte più lunga dell’anno
al neghittoso scarificar
di così tanta schiera,
che dalla stretta via par non si muova,
sopra la bianca pietra, la polvere nera.

Così vanno verso il ponte di ferro,
(sette acciari nella nerastra acqua),
ad aspettar che giunga,
dal ventre della terra,
la carne di color che non hanno ombra.

Sono carne fra sette carni
in questo carro di ferro urlante,
che dal sotterra mondo degli eletti
ascendo tremefatto
a far sì che si compia l’antico carme;

per cinque volte la grande clessidra,
prima che la terra sopra di noi s’apra,

e la sempiterna notte ci fa onoranza
con lingue d’organza color della ruggine,
che par l’urente aria non far doglianza.

Ora che il nero lago,
da questo antico ponte,
appare a questa mia inane carne
con le dentate sponde,
benedico, presago, questa mia sorte;

da una fino a sette
dall’acqua a salire un canto sordo
a lenire le lacerate carni,
cosicché d’incanto le bianche vesti,
a mezzaluna fanno inchino.

Viene con biancore opalino
la traghettatrice dalla tremula luce,
viene dalla cruna del lago
come l’attesa al primo ballo:

fanno da vogatore le sette farfalle.

A voi che siete carne senz’ombra
e come larve di mosca carnaria
cibate di conoscenza la vostra insania,

ascoltate dalla vostra dorata tomba
il cilestrino tremolio d’una colomba.
Walter Vettori

domenica 13 dicembre 2009

Lo specchio girato


Passi corrivi, sguardi asfaltati
il Natale si sveste del celeste
pavesano gli abituri con sciarpe
color del sangue e luci ad intermittenza.

Il retrogusto amaro del caffè,
lambisce il mio palato
come velati passaggi di donna.

Il bar si svuota
con augurose strette di mano:
mi ritrovo fuori a fumare senza tabacco;

le pareti del mio cervello
sono bianche, come il marmo dell’avello,
ed il cielo è uno specchio girato
in attesa che faccia neve.

Ti scrivo da una guerra


Ti scrivo da una guerra
senza parole:
“gli occhi rotti di sangue
come il ghiaccio in febbraio
sono il compagno d’armi
che mi ha mangiato il cuore”.
Madre, non passa giorno,
qui nel deserto,
che non fischia la paura
ed il campo di notte
è ansito dei silenzi:
“non c’è traghettatore ai nostri sogni”.
A questo chiedo
“pettina a mani laccate il mio grano,
come il buffo salmastro di settembre,
quando raggranellavo smarrimento,
quasi sabbia a disparire nel mare”.
Ventiquattro anni
convitato alla morte;
vivo, madre, come ombra
in pietra senza pianto,
nell’atteso cristallo di diverso colore
che sciorre in plenitudine la paura.

Ti scrivo da una guerra
con le parole:
“c’è un dove che ha il rosso del melograno,
il bacio rubato del pesco in fiore,
un passo fiorito di veste lieve:
mano alla mano con gli occhi al sereno”.

Sono seduto


Sono seduto
sulla mano cementata dell’uomo
ma che l’aggettivo non sia d’inganno
alla fragilità di questa panca.

Il pioppo di nera matita
distende bianca vela al mio pensiero:

così tutto è di leggera morte
come il sonno del vagone, fermo non
per troppi passaggi di tempo…

fino a data da definire
cospicui sconti sui binari morti.

Controcorrente (ispirato all’opera omonima della pittrice Patrizia Masserini)

Vanno, vengono,
occhi come stoppini spenti
passi che non sanno seguirsi.

Vanno, vengono,
hanno facce di usata cera,
capelli fintamente accesi.

Tutto è geometrico,
l’apparente oggi,
plastificato,
scorre, ma non porta al mare.

Vedi quel volto
sperso nei leggeri pensieri?
l’abito lacerato
dalla corrente;

Vedi, quel volto
ha la pace del lago,
il pettine d’autunno
ha lisciato la chioma:

il suo nome è controcorrente.

mercoledì 9 dicembre 2009

Il gatto


Il gatto che vedo sognante
sul davanzale della casa giallo di marte,
è l’idea di me sospesa fra il cielo ed il cemento,
io, che mi guardo,
con i gomiti affacciato alla finestra,
mentre l’acciaio colorato scandisce il tempo sulla strada ferrata,
ai bordi della mia incoscienza.

Ruggine sono i miei occhi nel soffice grigio piombo,
qui, dove tutto mi conduce,
ho piedi d’angelo, leggeri sui coppi,
corpo di gatto, bocca d’amante
e così filo il vento
rubando al cielo le note più alte.
Questo è il mio tetto,
un lucido anello di sposa,
il sogno che non si ricorda,
l’attimo che è prima di tutto,
fino a domani,
quando l’azzurro dei miei occhi
sarà diverso dal cielo che ora vedo,
ed affonderanno i miei pesanti stivali
nel grigio catrame antropofago.

Fame (da "Il pianoforte" antologia "Aneliti di sole")


Sonnolento il passo mi precede
nel vieto scivolare del mattino
ma come fersa quell’ali di vetro
s’abbarbicano al volto, linfa che riede

Sei tu, piccione numerato, la rena
su cui conto le mie orme,
sazio di semplice pane sorridi all’onda
s’affoca una camena.

Ingessato quel tuo volo come corame,
sulla pelle naviga
l’amara contezza d’un cerchio schiuso,
linea granitica, cremisi di fame.

Croccanti al nero sole,
milioni d’ali spezzate ognora
guatano il cielo fra rotte finestre,
lagrime secche d’altro colore.

Figli del silenzio (da "Il pianoforte" antologia "Aneliti di sole")


Ceausescu,
mesta radice dell’assenzio.

Occhi di cielo
farfalle senza ali
vomitati dalla terra
morsicati dal gelo.

Vergini al piacere, vestali
madri alla conta, regime, l’acerra
fiori innocenti strappati allo stelo
sogni gelati dal pane dei mali.

Chiaviche lorde, rifugi di guerra
drogati di colla, spiro anelo
lampi nel buio, strali,
piante morenti ai bordi la serra.

Miloud Oukili,
voce ridente nel silenzio.

Il pianoforte (da "Il pianoforte" antologia "Aneliti di sole")


Sono le voci del pozzo
banchi nelle vene
scuri tasti di un pianoforte.


Danzo dal bianco al nero
refolo fra il tralcio d’edera,
scalo mura d’ombra, fino
al ciglio di una lacrima vera:
specchio affamato diverso cielo

E così vedo:
Donne, sitibonda schiera,
piaghe sotto i piedi soffiare
sulla brace, prima che sia cera,
il viso di un figlio ripreso in un velo.

Da una finestra di neve
lo zucchero velato del ricordo,
il moto dolce della pendola,
l’innocente fiato ascolto,
pispigliare quel canto lieve.

Ah questo bordo di voglia,
come il flutto si asconde allo strato
di abiti vestiti a memoria;
fra lascive pieghe, lunato
il sogno mi appare, privo di foglia.

Non porta viaggio questo viaggiare
scali soste stazioni da ripartire:
nel meriggio del passo, mi scorgo
innamorato delle cose, a rifluire
nel vento, i colori del mio volare.


Sono le voci del mare
vele sulla pelle
chiari tasti di un pianoforte.

L'amore tedesco (da "78 Giri")


Dattorno l’algente biancore
attarda il costeggiare, nel mattino,
queste spallette di prisco pietrame,
ed è uno schiaffo, il tempo, alla guardata
di questo pianto di notte e di giorno.

Il Portale di ingresso al castello mi accoglie
di una nostalgica mantiglia,
che è di un tempo
quando a Bracciano si salutava l’estate,
ed il lago sbolliva di quelle voci forestiere:
nelle sere le cucine fumigavano parlate.

Volgo lo sguardo ad un peritoso saluto,
le parole appese come i rami di nonna,
a gocciare sopra il grande camino;
così mi ritrovo, muta,
e sporca di terra d’ombra bruciata:
sono occhi di un caporale tedesco.

Secondo sguardo (da "78 Giri")


Borboglia la vaghezza dei turisti
a quel vagare inquieto sul battello,
mentre ai poggi mi è dolce
il bianconero esistere del gelso.
Tempo sventato,
lo sguardo viaggia in diagonale,
è quello delle folaghe,
nella quieta onda.
In questa terra di mezzo, le mie ali,
sono vesti leggere:
“vivo l’attesa nel volo del cigno”.

I treni del silenzio (da "78 Giri")


Viaggiano treni senza finestrini
le croci d’oro girano lo sguardo
gli zucchetti neri sono polvere
come uomini portano la croce.

Viaggiano treni per niùna stazione
sopra scarne spalle stanno i bambini
dietro feritoie l’iride è un dardo
lanciato verso il fumo del cannone.

Viaggiano treni e nessuno li ferma
la libertà è sotto un altro cielo,
dove le stelle sono luce e sogni,
non stelle cucite di una conferma.

Viaggiano treni che non hanno viaggio
dove parola è morto silenzio.

Viaggiano, in tanti posti, viaggiano,
qualche volta c’è un raggio di sole
che sfida il nero rombo del cannone,
ma qui nessuno lo vuole guardare.

Solo tremule ossa e mani in attesa (da "78 Giri")


Solo tremule ossa e mani in attesa
dimenticate nei capelli
come foglie autunnali,
qui nel rifugio siamo ombre sul muro,
e la sera la fabbrica suona a sirena;

le macchine, ferme,
suonano il silenzio che è delle cose,
come pensiero a riposo nel cuore,
quando il respiro è un vento disteso,
che lo fa riposare.

Il pescatore di Salò (da "78 Giri")


I lampioni, la notte, fanno chiara quiete,
prima, spenti, come lance ficcate nel viale,
attendevano, soli, il rumore del cielo.
C’è un passo che ha il silenzio del lago, e guarda;
dintorno sono poche le facce fumanti,
altre sono bianche croci e pianti di donna.

I lampioni, la notte, fanno chiara quiete,
il chiavaccio dell’oste è un tardo rumore,
e vomita un vino che parla straniero;
l’ubriaco or sente, distante, quel raschio
di facce atterrite a cercarsi le membra,
e le ombre digradano nella tasca del lago.

Al molo le barche hanno nomi di donna,
il pescatore guarda l’albore ingoiare
quel suo fumo di carta che scuote la bocca;
all’intorno rivede la pietra spezzata,
e le mani indurite senza più voce,
ed ombre affamate, e tutto ciò che rimane.

Al molo le barche hanno nomi di donna,
il soldato è un gomitolo sulla panchina,
ed involta la testa ad un nudo belletto,
e guarda l’America ed un amo da pesca.

Ora il lago è una rifulgente vetrina,
dove scivola agli occhi, un legno di rosa.

Terzo sguardo (da "78 Giri")


Ed il celeste si sveste di quel sole
dietro un ombrato di passaggio;
lontano, un latrato ingoia il silenzio
dei miei occhi verso lo scuro del lago.
Ed i pensieri,
che nascono dal non pensare,
dipano in un gomitolo di luna,
quando la notte avrà i miei occhi
e la luna l’ombra di un cane;
di loro farò gialli versi
come lumeggio incontro al dimani,
e avanti lo scuro del lago,
il silenzio più forte
è una barca che non rompe l’acqua:
pare sentire una bocca che suona.